Roma, giovedì 10 febbraio 2011 – Nel 1994 Antonio Cuono fonda, insieme a sua moglie Nella Tarantino, lo studio di architettura Southcorner. Il loro scopo è quello di rimanere a lavorare, a costruire, a parlare, nel contesto in cui si sono formati e cresciuti. Allievi di Aldo Loris Rossi, caricano la loro arte di simbolismo e letteratura, seguendo percorsi solitari ed estranei, quasi in attesa del rivelarsi di possibilità espressive altrimenti nascoste e negate dalla triste complicità di potere politico, mercato culturale e degrado sociale e ambientale. L’autenticità dell’opera dell’architetto è stata sottolineata nell’ultimo libro di Paolo Vincenzo Genovese, professore presso la School of Architecture della Tianjin University in Cina. Per penetrare più a fondo la sostanza del suo lavoro, l’intervista ad Antonio Cuono.
Southcorner. Un angolo del sud. Qual è il nesso che lega i vostri progetti alla scelta di questo nome?
Southcorner nasce dalla nostra fede nella potenza rivelatrice delle immagini. Riemerge come riscrittura di una bellissima fotografia di Wim Wenders intitolata; “Western World, near Four Corners”, che inquadra un’ insegna solitaria sferzata dal vento e piantata nel nulla. Conficcammo la nostra insegna nel “nulla” di Southern World. Più tardi abbiamo scoperto che “Southcorner” possiede un valore magico per i nativi indiani di quella stessa regione americana, Hopi, Navajo, Papago, Yaqui. Un antenato dei pueblos ricorda che “la pista tracciata dal sole disegna i luoghi, il tempo e gli uomini.” Il sole, al suo sorgere al solstizio d’inverno, segna la leggenda e il destino delle comunità native americane. Ed è allora che “the sun is in the South Corner of Time”. Se le coincidenze hanno un senso, col tempo si mutano in corrispondenze: probabilmente io stesso avrei voluto essere un indiano, e forse lo sono diventato.
Che senso ha costruire oggi?
Scissa definitivamente tra propaganda e speculazione qualsiasi attività edilizia o di modificazione del reale, oggi non resta quasi nessuno spazio per l’architettura. L’architettura intesa come voce dissonante e antagonista è stata ridotta al silenzio, l’architettura “popolare” non può più esistere perché, come scrive Paolo Vincenzo Genovese, “è stato irrimediabilmente guastato il gusto degli italiani”. In definitiva, anche se si riuscissero a realizzare alcune singole opere significative – tra l’altro destinate a un rapido abbandono e all’indifferenza – non si riuscirebbe a invertire l’irreversibile processo di devastazione del paesaggio e di modificazione antropologica della società italiana. Nel film “Noi credevamo” Mario Martone racconta la storia di tre patrioti cilentani. Questa è dunque stata già allora la terra da cui ripartire! Improvvisamente, la cinepresa inquadra degli scheletri di cemento armato immersi nei nostri paesaggi naturali. Come a dirci che la battaglia perduta, oggi, è proprio quella dell’architettura e del paesaggio. Attraverso il film di Martone siamo risaliti alla radice inconscia del nostro presente. “Noi credevamo” anticipa le pagine della nostra sconfitta.
Quali sono le difficoltà che incontra un architetto, specialmente nel Sud Italia, nel tentativo di dare un significato profondo alla materia che plasma?
L’incoscienza, l’ardore e il preciso momento storico – l’avvento al potere per la prima volta delle Sinistre, al governo e in quasi tutte le amministrazioni del Nord e soprattutto del Sud – ci spingeva a credere. Mai promessa di cambiamento si è rivelata più illusoria. L’architettura è diventata puro strumento di propaganda, merce di scambio elettorale, svuotandosi di qualsiasi contenuto sociale e culturale, condannando il territorio all’incessante saccheggio di quel che ancora restava del patrimonio storico-naturalistico.
Ecocompatibilità. In che termini l’architettura dovrà contribuire alla salvaguardia dell’ambiente?
E’ evidente che la crisi planetaria, che mette in dubbio l’attuale e il futuro equilibrio tra uomo e ambiente, invoca la ferma risposta di un’allerta massima, nel rispetto di uno sviluppo finalmente sostenibile. La direzione è tracciata e non vi potrà essere architettura del futuro che non sia progettata secondo i principi della ecocompatibilità e della sostenibilità energetica. Ma, mi chiedo, cosa mai si potrà intendere per bioarchitettura se si è letteralmente cancellata la memoria stessa dell’architettura! L’architettura contadina, l’architettura popolare non erano forse fondate sui principi della economicità e della “naturalezza”?
Architettura digitale e tradizione artigianale. Quale delle due vi appartiene?
Tradizione artigianale. Oggi sembra che non si possa più progettare se non attraverso la fiction virtuale. Eppure noi abbiamo sempre progettato strutture complesse partendo dal disegno, dallo scavo dello schizzo, nella speranza di “liberarci dalle immagini di superficie” e risalire ad una verità inconscia della forma. A questo proposito sono orgoglioso che il libro di Paolo Vincenzo Genovese riporti, in piena età virtuale – Genovese è, tra l’altro, un attento studioso della Cyber-architettura – un nostro schizzo a penna per il concorso d’idee per il Grossmarkthalle Memorial Site di Francoforte.
Napoli. Un magma strisciante di teste, odori, panni stesi. A Napoli l’incontro con Aldo Loris Rossi, vostro maestro. Chi altro rappresenta, per lei, per noi, un modello cui volgere lo sguardo?
I paesaggi desolati del nostro Mezzogiorno d’Italia, luoghi disabitati e abbandonati, tracce silenziose di un antico splendore e della nostra solitudine, nessun senso avrebbero se non ci conducessero verso la febbrile visione di Napoli: la sua oscura malinconia nell’infinita sospensione d’uno spazio irreale senza tempo. A Napoli abbiamo conosciuto Aldo Loris Rossi, al suo studio abbiamo svolto un lungo e duro apprendistato. Architetto mirabile e studioso rigoroso dei mali e delle problematiche della città. A lui dobbiamo quel che siamo, il nostro modo di vedere, il nostro modo di pensare. Tra i maestri contemporanei pensiamo a Soleri, Domenig, Miralles, un po’ più indietro a Leonidov, Le Corbusier, Scharoun e i sognanti architetti dell’utopia espressionista novecentesca. Tra i coetanei pensiamo a Franco Pedacchia, poeta delicato di architetture frantumate, e ad Alfonso di Masi, instancabile scopritore di geometrie vitalistiche. Non possiamo chiudere senza un ricordo doloroso dell’immenso Bruno Zevi, alla cui scomparsa alle soglie del duemila, si è oscurato l’orizzonte dell’architettura italiana.
Per informazioni e approfondimenti visita il sito www.southcorner.it