I Governi di mezzo mondo hanno deciso di entrare nel capitale degli istituti di credito per salvarli dalla bancarotta. Nel belpaese il sistema regge, le banche non conoscono perdite ma profitti e si interviene solo a sostegno della liquidità
di Andrea Aidala
aaidala@lacittametropolitana.it
Roma, sabato 28 febbraio 2008 – Dopo mesi di rinvii e speranze ormai infrante, alcune delle grandi banche di tutto il mondo cedono alle nazionalizzazioni pur di sopravvivere. Succede in America, in Europa come in Asia, i correntisti plaudono all’operazione credendo adesso più al sicuro i propri risparmi, ma i mercati puniscono gli istituti di credito nazionalizzati seminando il panico tra gli azionisti.
In America, il presidente Obama, ha destinato ulteriori 250 miliardi di dollari, oltre i 700 già stanziati, per sostenere il sistema finanziario statunitense in modo diretto, ovvero entrando con forza nel capitale azionario delle stesse banche. Un provvedimento reso necessario dal pericolo bancarotta che investirebbe molti istituti. La Fdci, Agenzia Governativa di Assicurazione sui Depositi, ha annunciato perdite dell’industria bancaria Usa pari a 26,2 miliardi di dollari solo nel quarto trimestre 2008 e definito “problematiche” le condizioni di 252 istituti.
I primi beneficiari della nuova serie d’interventi dell’Esecutivo Obama saranno il colosso bancario Citigroup, che cederà al Tesoro il 36% del suo capitale sociale, e quello assicurativo Aig. Quest’ultimo versa in condizioni disastrose: lunedì prossimo il gigante delle assicurazioni americano dovrebbe annunciare una perdita relativa all’ultimo quadrimestre 2008 pari a 60 miliardi di dollari da sommare ai quasi 38 persi nei primi nove mesi dello stesso anno. A spingere Washington a scendere in campo, l’arenarsi di ogni possibilità di vendita delle attività di Aig a causa dell’instabilità e della sfiducia che domina il mercato finanziario e l’ormai chiara inutilità al procedere con semplici iniezioni di liquidità.
Dopo l’acquisizione statale, al colosso, con molta probabilità, toccherà lo scorporo in tre divisioni, tutte poste sotto il controllo dell’autorità federali, a cui seguirà la messa in vendita.
Anche in Inghilterra la situazione è seria e l’Esecutivo appare più che mai deciso ad intervenire. Dopo l’annuncio shock di una passività superiore a 24 miliardi di sterline, un record nel regno di sua maestà, Royal Bank of Scotland, già per il 70% di proprietà dello Stato, ha fatto sapere che la quota pubblica potrebbe salire al 95%: il Tesoro britannico avrebbe, infatti, l’intenzione di mettere in campo 13 miliardi di sterline per salvare RBS. Ma non è tutto. Royal Bank of Scotland non ha inoltre perso tempo a ricorrere all’Asset Protection Scheme, il nuovo piano di sostegno per il settore bancario annunciato dal cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling, che permette agli istituti di credito di assicurare gli asset tossici e crediti dubbi che le banche da tempo celano nelle proprie casseforti.
In crisi anche i giganti del credito britannici Barclays e Lloyd che ieri però hanno aderito al sistema d’assicurazione pubblica dei titoli ad alto rischio.
Nel belpaese la situazione è ben diversa e di certo molto più rassicurante. Nonostante le difficoltà riscontrate in borsa nelle ultime settimane, le maggiori banche italiane al confronto con le concorrenti straniere proseguono sugli allori. Sappiamo che i gruppi nostrani nascondono anch’essi titoli tossici, non conosciamo e forse non conosceremo mai quanti questi siano, ma non dovrebbero essere molti.
In Italia, il sistema bancario nel suo insieme non presenta falle, anzi vanta una certa stabilita: Unicredit, San Paolo ed i più grandi istituti bancari del nostro paese, anche quelli che in tempi non sospetti sono cresciuti grazie all’alto rendimento dei titoli rischiosi ed ora divenuti tossici, oggi continuano a macinare profitti sopportando l’enorme svalutazione delle loro azioni imposta dal mercato e i continui e pericolosi deprezzamenti delle monete dell’est Europa che mettono a rischio gli investimenti concessi in questi paesi. Nazionalizzare finora si è rivelato non necessario ed il Governo Berlusconi si è limitato ad organizzare un sistema di finanziamento ad alto tasso d’interesse (superiore al 7%) tale da garantire liquidità alle banche che desiderassero aderirvi. Dopo il sì dell’Unione, secondo “notizie di stampa”, a quanto pubblicato da “ilsole24ore”, sarebbero già otto gli istituti bancari italiani che avrebbero l’intenzione di partecipare all’asta dei cosiddetti Tremonti Bond, Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banco Popolare, MPS, UBI Banca, BPM, Banca Carige e Credito Valtellinese che, a quanto pare, potrebbero presentare richieste complessivamente superiori ai 10 miliardi messi a disposizione dal Tesoro.