Il commissario Ue agli affari esteri, Joaquin Almunia

I mercati crollano, l’economia mondiale si contrae. La crisi continua ad imperversare ed il futuro appare incerto. L’Italia soffre più di altri, ma per cause diverse: gap strutturale, deficit scolastico, liberalizzazioni incompiute, ecco, secondo l’Ocse, i motivi del nostro regredire

Il commissario Ue agli affari esteri,  Joaquin Almuniadi Andrea Aidala
aaidala@lacittametropolitana.it

Roma, mercoledì 4 marzo 2009 – Quando finirà la crisi? Il peggio è già passato? Queste le domande che affollano la mente di politici, economisti, imprenditori e comune gente e che purtroppo non hanno trovato ancora risposta. Se la Banca Mondiale ha ieri affermato che la tempesta abbattutasi sull’economia finanziaria e reale starebbe ormai placandosi, il commissario Ue agli affari esteri,  Joaquin Almunia, in completo accordo con il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha invece dichiarato che l’apice della crisi dovrà ancora presentarsi agli occhi del mondo.
In effetti la paura rimane ed il peggio non sembra essere passato e  l’andamento delle borse, in particolare degli indici bancari, ne sono chiaro sintomo. In apertura di settimana il mercato è crollato bruciando solo in Europa ben 200 miliardi di capitalizzazione. A pesare le brutte notizie sul rosso del colosso assicurativo americano Aig, superiore ai 60 miliardi di dollari, e l’esposizione di molti istituti del vecchio continente in Est Europa: una giornata che ha riportato Unicredit sotto l’euro ad azione e Intesa San Paolo di poco sopra l’1,78 euro, una vera catastrofe che ha mandato in fumo le speranze nate sul finire della settimana appena trascorsa. Anche ieri, dopo un avvio in altalena, la sfiducia ha dominato le contrattazioni. L’Europa è caduta, il Dj Stoxx 600, l’indice che sintetizza l’andamento dei principali listini del Vecchio continente, ha toccato i minimi degli ultimi 12 anni cedendo l’1,5%, spinta da Wall Strett che ha chiuso, per la prima volta dal 1996, con l’indice S&P 500 sotto i 700 punti.

Ormai è depressione, possiamo affermarlo.
Le banche centrali di tutto il mondo continuano ad agire con fermezza proseguendo sulla pericolosa strada del taglio del costo del denaro, ma questo non pare bastare a porre rimedio alla crisi come anche i piani messi in campo dai governi. I mercati non reagiscono, gli istituti di credito, trovando rifugio sotto l’ala protettiva dello Stato, soffrono delle continue svendite di borsa che rendono impossibile qualunque tentativo di risalita, l’economia reale continua a contrarsi, le aziende a chiudere, la gente sempre più numerosa finisce col perdere il lavoro.

L’Italia, pur essendo per lo più al riparo dagli effetti che l’uragano subprime ha spaventosamente generato, si trova a rischiare più di altri. Secondo l’Istat, mentre il Prodotto Interno Lordo nostrano si è ridotto in termini reali dell’1% rispetto all’anno precedente, il dato peggiore dal 1975, in Germania è cresciuto dell’1,3%, negli Stati Uniti dell’1,1%, in  Inghilterra ed in Francia dello 0,7%. Il gap strutturale, storico problema italiano mai risolto e sempre aggravato, continua a penalizzare il futuro dello stivale. Ieri, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha tracciato un quadro ben preciso di ciò che ci penalizza.
La produttività continua a calare: il nostro paese perde punti in classifica ma non, come si potrebbe pensare, perchè i concorrenti crescono, ma perché noi stessi camminiamo a marcia indietro. Secondo l’OCSE “l’elevato livello di proprietà pubblica e i vincoli normativi nei servizi professionali e nei trasporti ostacolano la crescita della produttività”, andrebbero quindi “eliminate le barriere all’ingresso nei servizi professionali, aboliti i tetti sui prezzi di tali servizi fissati dagli organismi di categoria, ridotte la proprietà e il coinvolgimento dello Stato nei business dell’elettricità, del gas, delle poste e dei trasporti e va anche limitato il coinvolgimento degli enti locali nelle aziende di servizi”. Anche la tassazione sul reddito da lavoro, soprattutto su quelli più bassi, è stata giudicata troppo elevata e dovrebbe essere ridotta significativamente finanziandola con progressivi tagli alla spesa pubblica e con il rafforzamento della lotta all’evasione fiscale.

Oltre alla struttura economica del nostro paese, l’OCSE ha messo sott’accusa l’organizzazione del sistema scolastico italiano ed in particolare quello universitario. Resta bassa la percentuale di laureati che sfiora il 20% nella fascia d’età tra i 25 ed i 30 anni contro l’attuale media europea di oltre il 30%. Al centro delle critiche anche ricerca e sviluppo. L’Italia dovrebbe investire di più, incentivare la promozione di partnership tra industria e università e rendere più trasparenti le procedure di assunzione dei ricercatori.
Il capo del Desk Italia dell’Ocse, Paul O’Brien, si è preoccupato di promuovere idee per risollevare le sorti del nostro paese. Giudicando opportune la cautele dell’Esecutivo Berlusconi nei confronti del debito pubblico, O’Brien ha spinto per una progressiva estensione delle liberalizzazioni, ma ha espresso parere negativo, almeno per il momento, sulla proposta di una modifica del sistema pensionistico che esprimerebbe i suoi effetti in tempi troppo lunghi, sulla nazionalizzazione del sistema creditizio ed, infine, su possibili fusioni nel settore auto reputando non sia la soluzione migliore per rilanciare il settore.