La borsa italiana soffre la crisi più delle concorrenti europee. Le ragioni sono strutturali: l’enorme peso dei titoli bancari, l’esiguo numero delle imprese quotate, la difficoltà di catturare capitali a causa dell’indebitamento
di Andrea Aidala
aaidala@lacittametropolitana.it
Roma, lunedì 9 marzo 2009 – L’andamento dei mercati finanziari non sembra seguire più alcuna logica. I continui ribassi, intervallati da magnifici rialzi di brevissima durata, sono sintomo di un malessere profondo che fino ad oggi non pare ancora essere stato compreso. In Europa tutte le borse soffrono, ma a Piazza Affari impazzano frenetiche le vendite. Ogni giorno, durante la settimana appena trascorsa, a chiusura delle contrattazioni Milano perdeva più delle concorrenti del vecchio continente: lo ha detto Laura Galvagni, giornalista de “ilsole24ore”, “da venerdì 27 gennaio l’S&P/Mib ha perso il 15,62% contro il 4,61% di Francoforte, il 7,82% di Londra e il 6,22% di Parigi”.
In un primo momento si è pensato fosse stato un caso, poi, dopo il ripetersi delle brutte prestazioni del listino milanese rispetto a propri concorrenti d’oltralpe, si è gridato alla congiura internazionale. A corroborare tale ipotesi la notizia circolata negli ambienti finanziari che Jp Morgan avesse indicato l’Italia come il paese a maggior rischio default, ovvero insolvenza. Dicerie che, se hanno contribuito a frenare la fiducia degli investitori verso l’economia del belpaese, di certo non hanno occupato un ruolo determinate nella catastrofe. A dimostrare ciò, il fatto che la smentita della stessa banca americana incriminata non ha per niente influito sul destino al ribasso di Piazza Affari.
Entrando più a fondo nella questione non è difficile accorgersi che da un bel pò il listino milanese è di molto più veloce a cedere capitalizzazioni rispetto alle borse europee. Nel merito, da inizio 2009, l’S&P/Mib ha perso complessivamente più del 33%, quasi il doppio di quanto ceduto dall’indice Stoxx continentale. Alla luce di tale considerazione non sono state di certo le dicerie ha provocare il vistoso zoppicare della finanza nostrana. Una causa è rintracciabile nella stessa conformazione del più significativo indice azionario della borsa italiana, l’S&P/Mib. Nato dalla partnership tra Piazza Affari e la società di rating Standard & Poor’s, rappresenta maggiormente titoli finanziari che, nonostante il crollo delle quotazioni, valgono circa il 40% dell’intero paniere. In particolare le sole banche detengono quasi il 30% della capitalizzazione complessiva. Una percentuale che non ha pari in Europa se pensiamo che a Francoforte gli istituti bancari rappresentano meno del 4%. Non è assurdo pensare che essendo soprattutto i titoli bancari a soffrire della crisi finanziaria i ribassi colpiscano maggiormente gli indici più esposti.
Ma è riduttivo credere di rintracciare le cause dell’arrancare della finanza tricolore nel maggior peso che, nei suoi listini, hanno i titoli bancari, principali vittime della crisi. Ripercorrendo la storia della finanza del belpaese ci si accorge che vi è altro che non va. Mentre negli anni le altre piazze europee hanno continuamente accresciuto il proprio peso nel gioco delle contrattazioni, Milano, dal’99 al 2007, ha completamente arrestato il crescere del valore della sua capitalizzazione complessiva, rimasta pari a 730 miliardi. Questo ha comportato il sorpasso delle altre piazze e la peculiare debolezza del listino nostrano alle indecisioni dei mercati. È evidente che dietro l’arresto dello sviluppo di Piazza Affari si celino una serie di problematiche mai risolte e sempre tralasciate. Prima tra tutte lo scarso numero di società quotate, a fine 2008 se ne contavano meno di 300: Borsa italiana non è ancora riuscita, dopo molti anni di attività, ad avvicinare le imprese italiane al mondo della finanza e pare certo che tale impresa non sarà fattibile ancora per molto, almeno fino a quando la crisi non sarà stata risolta. Il futuro non appare roseo ed il problema non di facile risoluzione. Anche se si lanciasse la completa privatizzazione delle poche società pubbliche ancora superstiti, quali Poste e FS, e dei grandi gruppi privati, come Barilla e Ferrero, poco servirebbe a spingere Piazza affari alla crescita.
A concorrere alla debolezza dei listini milanesi un paese in affanno che col suo enorme debito pubblico, pari nel 2008 a 1.650 miliardi, invita a desistere gli investitori dall’impiegare i propri capitali per supportare la finanza milanese e l’economia del nostro paese.