Roma, giovedì 24 febbraio 2011 – Si apre il sipario a suon di luci, e due donne conversando si dirigono verso il pubblico. Sono Chiara Casarico e Tiziana Scrocca, due interpreti straordinarie che dialogando con i presenti, raccontano le vicissitudini degli attori nel portare in scena le loro pièce teatrali. Partono con un atto di denuncia sociale da parte degli artisti, nei confronti di un mondo istituzionale prodigo in tagli alla cultura, ma lo fanno in modo divertente. In un racconto a saltelli, tra fatica, sacrifici economici e cose buffe si ride molto. “L’allegria è contagiosa e può cambiare il mondo, poiché solo quando si è allegri si possono immaginare cambiamenti” dicono in coro le due attrici. Dialoghi, monologhi e canti si alternano all’apertura di finestre e si passa in un attimo dal dramma alla comicità. Le finestre, da sempre simbolo di apertura verso il mondo, diventano qui un sipario tra una realtà e l’altra, tra una realtà inclusiva ed una escludente. La Casarico veste i panni di una signora affacciata al davanzale, che sputa e parla in dialetto romanesco rivelando la sua noia nel vivere chiusa tra quattro mura. Un mondo senza parole, di fronte a finestre virtuali, che non aprono da nessuna parte. La drammaticità come l’aspetto comico qui si snodano attraverso il canto. L’unione del canto al parlato diventa sfogo, lamento, speranza e soprattutto invito alla riflessione. “Andare a teatro è un atto di resistenza civile” dichiara la Casarico, mentre le note di Bella Ciao, invadono la sala, e ci conducono nelle atmosfere concitate dell’ultima guerra, durante la Resistenza contro le truppe nazi-fasciste.
La storia si ripete. Tornano i canti partigiani, i canti contro lo sfruttamento dei lavoratori, i canti di protesta. I canti espressione nel contempo di disagio e speranza, per un rinnovato senso critico tra la gente comune. La Casarico con la sua fisarmonica, accenna lo struggente inno partigiano, ed inizia a raccontare dell’ex ufficiale Alessandro Natta, internato in un campo di concentramento in Germania, durante l’ultima guerra. Egli ed i suoi compagni, avevano compreso che l’unico modo per resistere, era quello di tenersi su col morale, con le storie del proprio paese d’origine, gli studi nel campo di prigionia, il teatro, in una parola con la cultura. Tra loro c’erano uomini che sarebbero poi divenuti figure di riferimento nel panorama culturale italiano, uno tra i più importanti intellettuali italiani del Novecento, lo scrittore Giovannino Guareschi ed il grande attore Gianrico Tedeschi. E fu così che fare teatro nel campo di concentramento, parve il modo migliore per resistere. D’un tratto la Scrocca si cala nella veste di una donna di oggi, insoddisfatta e depressa, che ha persino perduto la capacità di sognare. Questo personaggio che, per i suoi modi buffi, suscita grande ilarità nel pubblico in sala, rappresenta in realtà ognuno di noi. L’uomo comune stanco e sfruttato, in un mondo dove non bastano tanti lavori per tirar fuori un mensile. Un mondo di sfruttamentini come dice la Scrocca. “Ma la colpa è mia, sono io che mi faccio sfruttare…perché sono una pippa!”
Le due attrici cantando assieme pongono in risalto il fatto che ancora oggi, ogni lavoratore, precario o fisso che sia, viene vilipeso fino all’inverosimile “Viviamo vite burocratiche…dal lavoro al sentimento, tutto una precarietà”. La Casarico dichiara al pubblico che le sembra di ravvisare un barlume di speranza nei giovani, e declama un frammento del pensiero di Pier Paolo Pasolini, “Non credo in questo progresso”. Le interpreti, nell’indossare un determinato cappello, vestono i panni di un dato personaggio, spiccatamente conformista. Il cambio del copricapo, che ondeggia appeso ad un’asta con una cordicella, sancisce il cambio del ruolo. I conformisti fanno a gara ad esprimere il loro biasimo nei confronti del diverso. Qui si agitano contro un pazzariello malato di allegria contagiosa. Si tratta di uno dei personaggi, ritratti dalla scrittrice Elsa Morante, perseguitato dall’intolleranza dei cosiddetti benpensanti. Profondo il testo di questa pièce teatrale e brave le due attrici nel cimentarsi in varie tipologie di generi. Le due coprotagoniste passano con maestria dalla Commedia dell’arte, in cui con l’ausilio di maschere, qui rappresentate da cappelli, danno il via alle allusioni, alla narrazione cantata del Teatro Canzone, basata su specifiche tematiche politico-sociali. Poi confluiscono al Teatro dell’Oppresso, in cui il pubblico viene quasi chiamato in scena, e l’azione teatrale pare divenire un attivo mezzo di conoscenza e di trasformazione sociale. A fine spettacolo risuona nella mente l’attualissimo pensiero di Pasolini: – Non credo in questo progresso. Spesso sia la società che l’individuo regrediscono. In tal caso la trasformazione non va accettata…Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto. Chi accetta il regresso vuol dire che in realtà non ama il genere umano -.