Roma, lunedì 14 febbraio 2011 – Dal 27 di gennaio il Teatro Studio Uno ha portato in scena “La stella sul cappotto” per la regia di Sasà Russo. Il testo della pièce teatrale è tratto dal romanzo autobiografico pubblicato da Roma Ligocka nel 2001 “La bambina col cappotto rosso: la storia vera di una sopravvissuta all’Olocausto”. Sulla sinistra un piccolo pensile con diverse cose, una foto, una bambola, un cappottino rosso appeso. La scena si apre nel buio. Una musica melanconica invade il palcoscenico e l’animo dei presenti, mentre la brava Valentina D’Amico, nei panni della protagonista, accende una candela e contempla un piccolo cappotto. “È un venerdì e sta calando la sera. Presto reciterò la benedizione Shabbat Shalom…dove sei nonna?” dice nei panni della Ligocka, che legge i ricordi dalla sua casa di Monaco. È la storia di una donna ebrea che da bambina era sopravvissuta alle persecuzioni naziste, durante una delle più riprovevoli pagine della storia dell’umanità, l’Olocausto compiuto dal Terzo Reich. La vicenda si articola nella continua fuga della bambina con sua madre, dopo la deportazione ad Auschwitz del padre e della nonna. È una sorta di dialogo della bimba con sé stessa, attraverso il quale, ella torna con la mente ai luoghi della sua terribile infanzia. Si tratta di un coro a due voci, interpretato con espressività dalle attrici Eleonora Micali e da Valentina D’Amico. Le due interpreti, scambiandosi il ruolo in scena vicendevolmente, vestono i panni della protagonista, da bambina ed in età adulta. Sono entrambe abili nel saper rendere lo stato d’animo del personaggio nei differenti momenti della sua vita.
La bravissima Micali, dotata di un buon senso della drammaticità, pone particolare cura nella caratterizzazione del personaggio. Attraverso la concitazione nel tono di voce e pause mozzafiato, conduce il pubblico in un’atmosfera di notevole impatto emotivo. Il respiro affannato e specifiche movenze corporali, danno conto della sua spiccata teatralità. “Loro gridavano!” dice l’attrice con rabbia e tono alto di voce. Poi con tono calante aggiunge: “…e noi obbedivamo. Chi non lo faceva veniva ammazzato” e ci catapulta nelle grigie atmosfere della Polonia di fine anni Trenta, tra urla, sudore, lamenti e disperati pianti. La D’amico, commossa e con aria ispirata: “Assurdo! Il dramma nel dramma…la cattiveria di quegli uomini le ha fatto dimenticare completamente il volto di suo padre”. Si tratta di una giovane attrice, fresca di palcoscenico, che sa inserirsi all’interno di un volto antico e nell’intensità della rappresentazione, apportando il suo specifico contributo a mo’ di pennellata di quadro realista. Il primo filo conduttore del racconto è la paura. La paura degli ebrei di essere uccisi dai nazisti. Chiusi tra quattro mura in una sorta di non vita, tra corpi maleodoranti, deprivati dei loro affetti, tra incessanti fughe di “buco nero” in “buco nero”. Il secondo filo conduttore della narrazione sono le carenze affettive, derivanti da un’infanzia disastrata dagli orrori. Traspaiono attraverso il gesto simbolico e vicendevole che, a fasi alterne, pongono in atto le due interpreti in scena. L’una dona all’altra, il medaglione che ha al collo, quasi a voler dire “eccomi piccola mia, mi prendo cura di te”. La bambina e tutti gli altri ebrei erano stati defraudati della loro stessa identità, della dignità, della vita. Ogni giorno uguale all’altro, senza né alba, né tramonto, né silenzio, ma colmo di disperazione. Persone divise le une dalle altre in un attimo…che nel ricordo, durò come un’eternità. Una musica melanconica invade la sala e sul fondale del palcoscenico viene proiettato un breve filmato con le immagini dei campi di sterminio. Su di esso una scritta rossa: Auschwitz. La parola, scandita lettera per lettera dal forte rumore di una macchina da scrivere, scuote l’animo del pubblico in sala e richiama alla mente la schedatura degli ebrei nei campi di concentramento. Il regista attraverso una scenografia a luce fioca e tinte in penombra, ha teso a dare risalto ad uno dei periodi più bui della storia dell’umanità. Il dolore di quella bambina rappresenta il dolore di tutti i milioni di ebrei perseguitati da un abisso di cattiveria senza limiti ed assurge a forte atto di testimonianza delle atrocità dei nazisti.
La convincente performance delle due interpreti in scena ci fa toccare con mano il dramma di una donna, Roma Ligocka, che solamente dopo cinquanta lunghi anni trova la forza di ripercorrere tutta quella sofferenza, per raccontare la sua storia. Negli anni novanta, la protagonista della vicenda, attraverso due episodi decisivi, un viaggio in Polonia e la proiezione del celebre film di Spielberg -Schindler’s List-, rientra in contatto con quell’antica sofferenza e trova il modo di rielaborare e gestire il suo dolore. Tra i fotogrammi del ricordo rivede sé stessa e prende la sua decisione, “raccontare…per mio figlio, la mamma, gli altri…per me”. Al di là di ogni facile retorica, l’invito alla riflessione su tali temi, è un qualcosa che noi tutti dobbiamo a chi ha perso la vita in tale scempio.