Intervista al dottor Paolo Mancini, medico chirurgo dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila
di Serafina Cascitelli
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L’Aquila, sabato 18 Aprile 2009 – Paolo Mancini ha 36 anni e ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia alla Sapienza Università di Roma. Non è nato nel capoluogo abruzzese ed è originario della cittadina di Larino (CB), dove è Consigliere comunale. Raccontare l’esperienza del terremoto è stata dura per Paolo; la voce a volte si affievoliva, le frasi spesso si interrompevano e riprendevano dopo silenzi. Altri momenti invece li ha raccontati animato, nella concitazione che aveva già provato e riviveva per noi nel suo racconto.
Il terremoto dell’Aquila: inizialmente non volevi concedere interviste, però poi hai cambiato idea. Qual è la prima cosa che ti viene da pensare?
“Non augurerei a nessuno di vivere una cosa del genere. Le scene che ho vissuto sono state apocalittiche, catastrofiche, per questo ho deciso di raccontarlo, perché le persone devono sapere e attivarsi. Ho capito che raccontare la mia esperienza può aiutare a sensibilizzare”.
Dov’era o dov’è la tua casa?
“Vivevo in affitto da solo al centro dell’Aquila in una traversa di Via Roma. Casa mia, non ci sono tornato a vederla. Ho saputo che non è crollata, ma è molto lesionata”.
Ti sei già giocato il tuo miracolo?
“La mia fortuna è stata che ero sveglio, perché c’era stata una scossa intorno alle 23 ed ero già in allarme. Avevo messo le scarpe vicino alla porta e avevo lasciato la luce accesa. Sono restato in casa quella notte perché abitavo al primo piano, altrimenti forse sarei stato in macchina.
Hai sentito la scossa della notte, cosa hai fatto per salvarti?
Mi volevo lanciare dal balconcino, ma ballava tutto e non riuscivo a stare in equilibrio e sono scappato allora giù per le scale. La lampadina che avevo lasciata accesa era scoppiata, ero al buio in una nube di polvere e mi cadeva di tutto in testa, poi è stato buio in tutta la città. Ero fuori per strada in pigiama, senza telefono. Ho cercato di avvisare la mia famiglia per dire che stavo bene, dovevo andare in ospedale e ho fermato una macchina per farmi accompagnare”.
La situazione è stata chiara in tutta la sua gravità da subito?
“Non si è capito subito la gravità del terremoto; c’era tanta gente spaventata, ma era buio. Quando ci siamo messi in macchina per raggiungere l’ospedale abbiamo iniziato a vedere i crolli e abbiamo compreso che era accaduto un fatto molto grave”.
L’ospedale dell’Aquila, al centro della polemica: com’è stata vissuta questa situazione da un medico?
“L’ospedale è fondamentale in queste situazioni, senza l’ospedale tutto diventa più difficile. E’ stato sgomberato, poiché dichiarato inagibile, fin da subito. Eravamo oltre 100 medici: il personale medico e infermieristico si è dato subito da fare per spostare i pazienti, anche perché stavano per arrivare i feriti. Ci siamo attivati in perfetta collaborazione con gli ospedali limitrofi: non appena si stabilizzava il paziente, veniva trasportato d’urgenza negli ospedali delle cittadine vicine con ambulanze o con elicotteri nei casi più difficili. C’erano feriti lievi, che avevano bisogno solo di suture, ma anche situazioni più gravi, situazioni di pazienti da rianimare e abbiamo fatto di tutto, davvero di tutto, per farle sopravvivere. Ci sono stati anche casi in cui purtroppo alcuni feriti non ce l’hanno fatta. Abbiamo visto tanti bambini feriti”.
Senti di poter dire che ciò che è stato fatto a L’Aquila lo si è fatto nel migliore dei modi?
“Tutti non si sono fermati un secondo, siamo andati avanti senza fermarci fino a sera. Poi i ritmi sono rallentati perché si attendevano le persone estratte dalle macerie. Tutta la macchina operativa è stata perfetta, in collaborazione anche col personale volontario. L’unica polemica ha riguardato proprio l’ospedale, una costruzione che risale appena a qualche decennio fa, secondo dei criteri definiti antisismici ed inaugurata nel 2000, ma non basta che un ospedale non crolli per essere antisismico, deve poter essere funzionante. Il pronto soccorso avrebbe dovuto fungere da imbuto per smistare i pazienti nei vari reparti; essendo l’ospedale inagibile, ci siamo organizzati diversamente. In realtà il pronto soccorso lo abbiamo utilizzato ugualmente ma solo per i casi più gravi, per i feriti più lievi si praticava il primo soccorso fuori, davanti all’ospedale”.
Com’è stata la tua giornata di oggi?
“Abbiamo organizzato col Comune di Larino dei furgoni carichi di beni di prima necessità per il paesino di Lucoli, vicino L’Aquila. A Lucoli la situazione non è grave come le frazioni nei pressi del capoluogo abruzzese, completamente distrutte, ma molta gente vive in tenda e fa parte di quei 25.000 sfollati che sono al freddo, dove per avere del caldo ti affidi alle coperte, 4 o 5 coperte e aspetti che viene giorno, perché di giorno sotto le tende fa caldo. Abbiamo caricato nei furgoni dagli alimenti agli spazzolini, ai dentifrici e alla biancheria intima. Occorre stare attenti: bisogna prima sapere ciò che serve realmente alle persone che si vuole soccorrere”.
Molte storie di vita sono state raccontate da far accapponare la pelle, come quella in particolare dei due genitori che scappavano via coi figli in braccio, coperte le teste con dei cuscini, che nel buio e nella nuvola di polvere non si sono accorti che il pavimento della cucina era crollato e hanno fatto tutti un volo di 3 metri. Hai un ricordo particolare? Un evento, un collega, un paziente o una storia che ti hanno raccontato?
“Sinceramente no. Spesso di giorno, anche quando sono sveglio, mi vengono dei flash, vedo sempre quelle scene, dal momento terribile in cui ero in casa e pensavo di non farcela alla disperazione delle persone che con me e come me scappavano. I pazienti ne hanno raccontate a centinaia di storie così tristi e impressionanti, tutte ugualmente terribili. Il trauma psicologico è profondo: gli psicologi sono a lavoro, ma è molto difficile. Si tratta di un’intera cittadina e questo difficilmente si cancellerà dalle loro teste”.
Credi che le persone vogliano andar via dall’Aquila e trasferirsi? Quali sensazioni hai avuto?
“Adesso il panico è normale, ma secondo me la gente vuole rimanere. Io voglio rimanere e vivo qui solo da due anni, ne parlavo anche con un mio collega, anche lui vuole restare. Dopo questo terremoto mi sono legato ancora di più a questa città. Sicuramente è così anche per chi è nato qui”.