Roma, 7 ottobre 2013 – Dal Teatro Dei Limoni a Foggia Vincent. Vita, colori e morte di una follia arriva al Teatro Millelire di Roma, andato in scena dal 17 al 29 settembre. La regia di Roberto Galano, già ospite al Millelire con “Bukowski”, dirige un intenso e intimo monologo, di cui Leonardo Losavio è autore e interprete. Il bianco della scena sembra attendere l’arrivo del colore: cornici in sospeso nell’aria, pronte ad accogliere pennellate di emozioni, dominate dal giallo, il colore della follia. Al centro della scena, a fare da baricentro ad una storia senza equilibrio, la sedia sulla quale Van Gogh si presenta come un imputato, colpevole della sua follia. Narra di amori, sogni, delusioni, attraverso i suoi occhi e quelli di amici, conoscenti, parenti, interpretati abilmente dallo stesso attore.

Conosciuto come Vincent, avrebbe forse preferito essere chiamato Willem. Prima di vedere lo spettacolo ci si chiede cosa si conosce in fondo di questo personaggio. Vengono in mente gli ampi vortici del cielo stellato, i girasoli, l’autoritratto. Ma ciò che risalta nell’immaginario comune è l’associazione artista-pazzo, il pittore che si tagliò l’orecchio, prima di tutto. Un uomo malato e un pittore: due facce della stessa medaglia che si scontrano in un violento straripare di colori. Ma più violenta e dannosa è la società in cui Van Gogh ripone la speranza di una cura per il suo male: una pazzia da cui non si può guarire e da cui può solo momentaneamente distrarsi, secondo i consigli del medico. Losavio, impossessato dal suo personaggio, guarda gli spettatori negli occhi, trascinandoli nel mondo e nelle visioni di Van Gogh. I cambi di scena, di personaggi e di situazioni avvengono solo attraverso la voce, che si alterna tra dialoghi, narrazioni e voci fuori-campo. La forte connessione tra il pittore e i suoi quadri è sottolineata dalla regia, che sceglie di scandire il tempo della storia inserendo in ordine cronologico la descrizione delle opere nel momento preciso della creazione.

Il pittore olandese nasce il 30 marzo del 1853, ma il giorno del suo compleanno non era mai stato un giorno di festa. Anni dopo, quando era ancora bambino, ne comprese il motivo. Si trovava sulla tomba del fratellino che non aveva mai conosciuto, quando lesse il suo stesso nome e la sua data di nascita incisa. Scopre così che prima di lui c’era stato un altro Vincent Willem in famiglia, nato e morto il 30 marzo 1852. Fu un grave colpo per il piccolo Vincent, il primo di tanti, nei suoi 37 anni di vita. Fallimenti sentimentali, economici e professionali, insieme alle delusioni familiari e affettive che seguirono, contribuirono a dare una forma sempre più vivida alla sua malattia. Due le figure principali nella sua vita: il fratello Theo, che lo supportò sempre nelle sue attività, anche economicamente, e il pittore francese Gauguin, con cui convisse ad Arles, seppure fonte di forti contrasti anche drammatici che portarono i due ad allontanarsi.

Nel secolo scorso era frequente l’associazione o uguaglianza tra arte e pazzia, secondo la quale per essere artisti bisogna essere pazzi. “Van Gogh è impazzito perchè dipingeva o dipingeva perchè era pazzo?” è la domanda frequente anche nella comunità scientifica. Un importante argomento, delicato e attuale, trattato durante il convegno sul rapporto tra arte e psichiatria “Psiche e arte” svoltosi a giugno di quest’anno. “L’artista arriva alla pittura tardi, a trent’anni. Ha vissuto più a lungo probabilmente proprio grazie alla sua arte, non morto per il suo essere artista” spiega la dottoressa E. Gebhardt nel suo intervento. “L’arte è un mondo di immagini che scaturisce una reazione mentale unica e personale in ognuno, perchè è un atto di fantasia. L’arte non può essere libera di esprimersi finchè limitata e legata al vincolo della pazzia. Non lo è tuttora”, e continua: “L’artista che va in psicoterapia smette di essere artista? L’arte non si cura, perchè non è patologia”.

I colori vibrano sulla tavolozza. Van Gogh li stende col le dita, con le mani, con la bocca, come a voler mescolare anche il suo corpo, imprimendo una parte di sè su ogni quadro. Ogni cosa può diventare colore: la rabbia, la morte, i pensieri, i sentimenti. Il colore prende vita sulla tela e dà vita al pittore. Losavio lascia gli spettatori con un quadro del 1890, anno della morte dell’artista. Un regalo di Van Gogh al fratello Theo per la nascita del figlio, Ramo di mandorlo in fiore: petali bianchi che si stagliano in un cielo celeste, il colore del miglior augurio che si possa fare, secondo il pittore, il silenzio.

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