Roma, martedì 16 ottobre 2012 – Il Teatro Quirino di Roma apre la stagione con un Re Lear d’eccezione, diretto da Michele Placido, insieme a Francesco Manetti, e che lo vede indossare i panni del tragico monarca. La prima è prevista per martedì 16 ottobre e le repliche si concluderanno il 28 ottobre. Michele Placido in questi ultimi anni ha abituato i suoi fan all’alternanza tra cinema e teatro. E se sul grande schermo di recenteha riscosso più attenzione e emozione come attore, che come regista (il suo “Vallanzasca” non è sembrato all’altezza di “Romanzo criminale”), in scena i suoi lavori hanno sempre una straordinaria efficacia per tasso drammatico e allestimenti scenici. Ogni incontro poi con Shakespeare, il genio drammaturgico assoluto, amato e frequentato da sempre da Placido, garantisce allo spettatore quella “promesse de bonheure”, con allestimenti suggestivi che pur conservando la fedeltà del testo poetico, non mancano di affondare la critica ai nostri tempi contemporanei.
«Ho frequentato Shakespeare nei più teneri anni dell’adolescenza, improvvisando rappresentazioni notturne per i miei compagni paesani (ricordo un “essere o non essere” finito con un gavettone d’acqua) – racconta Placido -. Iniziai la mia carriera proprio come attore nel ruolo del “muro” nel “Sogno di una notte di mezza estate” con la regia di Orazio Costa; ho poi interpretato: il bastardo nel “Re Giovanni” con la regia di Fortunato Simone, Calibano ne “La Tempesta” con la regia di Sthreler, Petruccio ne “La Bisbetica Domata” con la regia di Dall’Aglio, MacBeth e Otello con la regia di Bellocchio e Calenda. Solo l’assidua frequentazione del mondo di Shakespeare in questi anni tormentati della nostra storia mi ha dato coraggio nel proseguire il cammino senza sorprendermi dell’orrore che noi uomini siamo capaci di scatenare».
Re Lear esplora la natura stessa dell’esistenza umana: l’amore e il dovere, il potere e la perdita, il bene e il male. E racconta della fine di un mondo, il crollo di tutte le certezze di un’epoca, lo sgomento dell’essere umano di fronte all’imperscrutabilità delle leggi dell’universo. Il palcoscenico in cui si muovono i personaggi, messi in scena da Placido e Manetti, è la distruzione del mondo. La storia di Lear è la storia di uomini e di civiltà che si credono eterne, ma che fondano il loro potere su resti di altri poteri, in un continuo girotondo di catastrofi e ricostruzioni, di macerie costruite su macerie. Le “ombre” che ritroviamo in scena – ovverosia un cast di qualità, che miscela attori emergenti e professionisti affermati, come Gigi Angelillo, Margherita Di Rauso, Federica Vincenti, Francesco Bonomo, Francesco Biscione, Linda Gennari, Giulio Forges Davanzati, Brenno Placido, Alessandro Parise, Peppe Bisogno, Giorgio Regali, Gerardo D’Angelo, Riccardo Morgante – alludono ad altre ombre contemporanee che vedono sgretolare sotto i piedi un mondo di privilegi e di potere. In filigrana si può leggere un copione, a cui gli italiani credevano di aver assistito venti anni fa e che si ripete oggi. Il teatro aiuta in questo senso a prenderne coscienza.
E la speranza dei due registi, o meglio l’auspicio è proprio quello che lo spettatore non si faccia assorbire dalla bellezza affabulatoria del testo teatrale e della spettacolare messa in scena, ma che anzi proprio tramite il testo poetico, tra i più densi a carichi di significato di Shakespeare, non dimentichi mai di trovarsi a teatro, ossia in un luogo di finzione e di metafora, che non cada nell’illusione di separare i due mondi, «ma piuttosto che veda sempre il muro dietro la scena di cartone». Cosa non facile, perché l’intensità di regia, scene (Carmelo Giammello), musiche originali (Luca D’Alberto), costumi (Daniele Gelsi) e disegno luci (Giuseppe Filipponio) creano comunque un “oltre mondo”, nel quale lo spettatore viene risucchiato e stordito, e la cui forza evocativa supera le fragili barriere mentali dell’attenzione odierna. Il teatro: questa meraviglia.