Roma, mercoledì 16 marzo 2011 – Al Teatro dei Contrari fino al 20 di marzo 2011 va in scena la pièce teatrale tratta dai diari di Sylvia Plath, su testo di Rita Pasqualoni, per la regia di Lorenzo de Feo.
Le note di un motivo malinconico ed inquietante si spandono all’interno della sala insieme ad un denso fumo grigio che impedisce agli occhi di vedere oltre. Dal buio una voce fuori campo recita: “Luglio 1950, forse non sarò mai felice…ma stasera son contenta…in momenti come questi sarei stupida a chieder di più”. Entra in scena a passo lento la brava attrice Rita Pasqualoni, nei panni di Sylvia Plath, che declama le parole della poetessa. A fianco a lei un giovane interprete Daniele Latagliata traduce il parlato nella lingua dei sordi. La protagonista, in abito color crema, si siede ad una poltrona rossa di fronte ad un’antica macchina da scrivere. D’un tratto è come se la poetessa, attraverso l’attrice, narrasse al pubblico la sua sofferenza. Sylvia, affetta da una ricorrente depressione, alterna momenti di fuga dalla socialità a momenti in cui ne sente la mancanza. Toglie il foglio dalla macchina da scrivere, lo straccia con rabbia mentre le luci chiudono il sipario su un mare di tristezza.
Sylvia a causa del suo oscuro mal di vivere si sente demotivata, inadeguata ed alterna momenti di gioia ad un’estrema cupezza interiore. In realtà è una donna all’avanguardia, oppressa dalle convenzioni sociali del suo tempo. Se da una parte, in cerca di sicurezza, tende alle consuetudini, dall’altra ne rifugge, poiché vede in esse l’estinzione del suo estro creativo e della sua stessa libertà. Il suo lamento è lacerante, ma dietro al continuo parlar di morte si cela forse un disperato slancio vitale. L’attrice nei panni della poetessa, che non riesce a gioire della vita, resta in silenzio accarezzando le sue stesse gambe ed abbracciandosi come in preda a desideri mai appagati. Sylvia prova invidia nei confronti dell’uomo per il suo essere indipendente, mentre lei, in quanto donna, può solo struggersi in un ruolo subalterno. “Desidero le cose che mi distruggeranno” dice con aria affranta. La poetessa è ossessionata dall’idea di dover trovare un senso alla propria vita. “C’è un demone in me che vorrebbe vedermi fallire” dice l’attrice ansimando e con sguardo nel vuoto. La Plath è afflitta dalla smania di dover essere perfetta. La sua è una continua lotta per conquistare ai propri stessi occhi il diritto a vivere accettando le proprie umane debolezze. Una donna fragile ed estremamente sola. Obbligata dalla sua timidezza a portare una maschera per relazionarsi con gli altri.
Nonostante i suoi successi in campo artistico non riesce a lenire il suo male di vivere. Desidera la morte per paura del fallimento, in quanto teme di non riuscire a dimostrare a sé stessa ed agli altri di valere qualcosa, ed intravede in essa una liberazione rispetto all’opprimente infelicità quotidiana. Un grande faro illumina il volto dell’attrice che solleva le braccia col palmo delle mani rivolto verso il pubblico ed inizia a declamare i versi di una poesia della Plath, mentre sul fondale scorre un filmato con le parole in italiano: “Una pantera m’incalza, un giorno me ne verrà morte…il suo ardore mi cattura”. E’ una poesia dedicata al marito Ted Hughes a metà anni Cinquanta. Nel suo slancio d’amore per il coniuge s’intravede il desiderio di salvare sé stessa, ma nel momento in cui realizza di essersi a questi legata fortemente, inizia a soffrire per la dipendenza psicologica ed affettiva che ne consegue, e si rintana di nuovo nella sua vita interiore. “Cara mamma…Ted mi mente…quando dai a qualcuno tutto il suo cuore e lui non lo vuole, non puoi riprenderlo indietro” declama l’attrice con voce fioca e struggente. Il tradimento del marito e soprattutto la depressione conducono la poetessa ad una sorta di alti e bassi in virtù dei quali lei alterna momenti di esaltazione a momenti di estrema disperazione. Per non soffrire della separazione dal coniuge si rifugia nella scrittura e viene ripagata dalla celebrità.
Scorrono sul fondale del palcoscenico i i versi in inglese della poesia Lady Lazarus, mentre la voce originale di Sylvia Plath ne scandisce il testo attraverso una registrazione d’epoca. “Morire è un’arte…dalla cenere io rinvengo con le mie rosse chiome e mangio uomini come aria di vento”. In questa poesia ad alto contenuto simbolico e metaforico la Plath col riferimento alla sofferenza degli ebrei per le atrocità dell’Olocausto, allude al proprio senso di atrocità interiore. L’artista statunitense attraverso i suoi versi riesce a connettersi profondamente col pubblico e sublima il suo dolore nell’arte, per trasformarlo in qualcosa di grande. Paradossalmente la sofferenza che la spinge a desiderare la morte è stata da lei trasformata in qualcosa che le ha ridato vita oltre i suoi stessi giorni.
Il regista Lorenzo de Feo ha saputo rievocare in modo credibile l’atmosfera della desolazione della scrittrice nel presente e coinvolgere il pubblico dando una visione poetica alla narrazione. Brava l’attrice protagonista Rita Pasqualoni nel sapersi calare con espressività in un ruolo non facile. I suoi lunghi silenzi, le grida, il respiro sincopato ed il rallentamento dei movimenti corporei rendono il pubblico partecipe di una dilaniante emotività. Brava nel saper assorbire dentro sé lo smarrimento di Sylvia e porre in contatto i presenti con questo fragilissimo ed indifeso essere umano. Se il riportare alla mente vicende come questa servisse a dare più ascolto ed attenzione a chi soffre, allora i patimenti di Sylvia Plath avrebbero una valenza a livello umano ancor più grande, persino al di là dell’arte.