A quasi diciannove anni dalla scomparsa del giudice ragazzino assassinato dalla mafia, il suo ricordo è sempre più vivo, auspicio di una società migliore
di Lilly Amato
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Agrigento, lunedì 23 marzo 2009 – Rosario Livatino è un nome che ha molto significato per la giustizia italiana, ma anche per quel sistema, parimenti italiano, in cui i giusti sembrano destinati a soccombere come "idealisti" o "sognatori" o ancora "utopisti". Livatino aveva 26 anni quando entrò in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta: la legge autentica nel sangue, la fede incrollabile in Dio e nessuna voglia di soccombere, cedendo alla corruzione. L’anno successivo diventò sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento per dieci anni, quando assunse il ruolo di giudice a latere. Fu ucciso all’età di appena 38 anni sulla superstrada 640 Canicattì-Agrigento, mentre si recava senza scorta in tribunale, da quattro sicari della Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in conflitto con Cosa Nostra. Livatino si stava occupando della futura Tangentopoli siciliana e aveva già colpito più volte la mafia, attraverso la confisca dei beni. L’allora presidente della Repubblica, Cossiga, lo definì il giudice ragazzino. Dal 1993 il vescovo di Agrigento ha incaricato l’insegnante di latino e greco del giudice di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione. E’ del 94 il film di Alessandro Di Robilant, con un commovente e impeccabile Giulio Scarpati nel ruolo di Rosario Livatino.
Brillante intelligenza, uomo di cuore e profonda onestà, si prodigò sempre per dare "un’anima alla legge". Era questo per lui il compito primo del giudice: dare volto umano alla fredda, astratta legge, come lui stesso affermò in una sua conferenza nella città natale, Canicattì, il 30 aprile 1986. Fu in quell’occasione che disse: "Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico". Questa frase fu la sua guida perenne, perché la legge andava applicata attraverso le doti della mente e del cuore. Fin da piccolo, dimostrava saggezza e bontà d’animo. Alle scuole elementari, il suo maestro lo definì più che eccellente, eccezionale. Alle scuole medie, ebbe il giudizio più alto. Al Liceo Classico, eccelleva in ogni materia. La laurea in giurisprudenza fu conseguita con centodieci e lode. Di grande modestia e generosità, aveva la stima e l’affetto di tutti. Per Rosario Livatino, giustizia equivaleva a dignità umana. La sua vita era totalmente dedita al lavoro e alla famiglia, in pena per lui. Fino a tarda notte, stava alla scrivania del suo studio, in cui non mancava mai il Vangelo.
Se in lui sorgeva lo sconforto, stava vicino ai diletti genitori. Ed ogni mattina, prima di recarsi in Tribunale, non mancava mai di andare in Chiesa a pregare. Nel diario personale, emergevano anche le sofferenze per i rischi che sapeva di correre. Era un uomo eccezionale, ma sempre un uomo che temeva e forse sapeva che qualcosa l’avrebbe ostacolato. Mai ostentava i suoi successi, la sua autorità. Non si faceva riconoscere per avere qualche utilità, rispettando il proprio turno come tutti gli altri cittadini. Giovanni Paolo II lo definì "martire della giustizia e indirettamente della fede". Quando fu ucciso, implorava pietà ai suoi spietati assassini. Quella di Rosario Livatino è una vicenda che tocca il cuore di ogni uomo, facendolo riflettere sulla follia e la barbarie del mondo, che appare quasi troppo stretto per persone tanto belle e straordinarie. Dopo Livatino, la giustizia italiana ha conosciuto altre gravi perdite: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nonostante sia stato l’inizio di un tracollo, il loro operato è tuttora tangibile e solido, a dispetto di chi, con la loro uccisione fisica, desiderava il contrario. Sono, ancor di più, esempi immortali di vita.