Roma, mercoledì 9 novembre 2016 – «Quindi il watch dog di un tempo è un cagnetto spelacchiato e affamato, pronto a leccare la mano del primo che gli allunga una polpetta», scrive S. Balassone su “il Fatto Quotidiano” di mercoledì 9 novembre, il giorno dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump. Premesso che chi scrive pensa che se ne vedranno delle belle nei prossimi 4 anni di mandato, il fatto adesso è un altro. L’inconsistenza dei giornali e del mainstream mediaco. Il giorno dopo, sempre su “il Fatto Quotidiano”, si torna a parlare di media e si riportano le parole scritte dall’editoriale del New York Time, sul fatto che la stampa non ha saputo raccontare la realtà. In televisione direttori di giornali e ex giornalisti si interrogano adesso su questa incapacità di raccontare il reale.
La vittoria negli Stati Uniti d’America di Donald Trump, inaspettata e per certi versi incredibile, ma solo per chi – come i tanti semplici cittadini – si è basato sulle notizie dei media internazionali, cambia completamente la prospettiva degli strumenti di informazione di massa. Sono effettivamente utili e accreditabili? Sono come si diceva qualche tempo fa potabili? Insomma è possibile basarsi su di loro per poter avere uno sguardo veritiero sul mondo, sul reale, sui fatti? Non soltanto gli exit poll hanno dimostrato di essere reticenti ha dare indicazioni corrette. Almeno al grande pubblico. A chi legge i dati macro aggregati. Anche giornali, radio, televisioni e siti online sono, al pari degli strumenti di rilevazione statistica, reticenti a raccontare la verità. Alcuni parlano di fine del quarto potere, quello della stampa e di conseguenza del quinto (la tv) e del sesto (il web), che sono strettamente correlati. È il sistema del mainstream informativo che appare offuscato, dopo la vittoria di Donald Trump.
In pratica è avvenuto che gli osservatori privilegiati, o almeno quelli che avrebbero dovuto essere tali: i giornalisti politici, gli opinionisti, i grandi direttori di testate di tutto il mondo hanno effettuato analisi, interventi, fondi, editoriali fuori dalla realtà, basandosi sui sondaggi, sulle impressioni personali, su scarse o nulle ricerche fattuali, oppure basandosi sulle informazioni che venivano rilasciate dai vari uffici stampa politici.
Un’informazione drogata e senza filtri è passata per i media e ha raggiunto i cittadini di tutto il mondo. Alzarsi il giorno dopo e trovare con sorpresa che la realtà è ribaltata, vuol dire che la notizia è stata mancata. La notizia non era tale. Era una previsione e non un’informazione.
Vuol dire che il sistema mediatico non soddisfa più la verità ma droga lo stesso sistema. Lo altera. E siccome i media copiano i media, la catena di informazione drogata si è sparsa per l’intero pianeta. Certo in ogni elezione c’è incertezza. Il dato probabilistico non è possibile eliminarlo. Ma un conto è dire che la Clinton ha l’85% di probabilità di vincere – che è quasi una certezza, rivelatasi però completamente infondata. Un conto invece è cogliere i segnali contrastanti, andare a verificare se questi stessi segnali possono essere indicativi di una verità altra. In una parola fare inchieste, recarsi nel cuore dell’america rurale, bianca, razzista, gay per capire in cosa davvero credeva.
Forse proprio la percentuale bulgara di consenso dei presunti sondaggi avrà impedito una verifica approfondita e quindi la ricerca della verità. Compito però del giornalismo e dei media era di mettere in dubbio proprio il dato. Ossia chi ha verificato che la notizia fosse vera? Che effettivamente la Clinton aveva l’85% di probabilità di vincere?
Oggi si descrive la capacità di Trump di lanciare messaggi. Pochi, chiari e netti. Un elogio alla sua campagna di comunicazione. Ma quale fosse questa sua campagna di comunicazione prima delle elezioni non ci è stata raccontata. Gli inviati ripetevano i ritornelli di tutti gli altri media, amplificando un’unica grande voce e mancando al compito fondamentale di cercare la verità. Quanti hanno davvero letto e messo a confronto i programmi? Sul sito di Trump (https://www.donaldjtrump.com) , allestito per le elezioni, c’è ancora il programma in pillole con alcuni dati statistici. Quanti giornalisti hanno verificato l’esattezza di quelle affermazioni?
Questo significa quindi che il consumatore di notizie si muove su terreni incerti, in territori dove i confini tra media principali e media secondari o minori non esiste più. Un Tg1 o l’editoriale di un direttore di giornale, poniamo Il Corriere della Sera o il Messaggero (ma potrebbero essere anche altri), vale quello di un oscuro, piccolo e poco seguito sito web, o quello di una piccola web radio, o di un giornalino patinato locale, infarcito magari di brutte pubblicità (come tanti se ne trovano nelle province italiane).
Se infatti il gioco è quello di predire il futuro. Di tirare a indovinare. Di fare opinione. Di passare un comunicato stampa. Allora uno vale l’altro. “Repubblica.it” equivale a “Cittàmetropolitana.info”. Perché la differenza dovrebbe essere nelle fonti privilegiate di informazione da cui attingere. Nell’esperienza e nelle capacità a condurre un’inchiesta giornalistica convincente. Nei mezzi economici a disposizione. Se questo manca. Allora anche uno sperduto giornalista di un altrettanto insulso e sperduto giornaletto di provincia, attraverso il rigore professionale, può raggiungere la verità. Può cioè informare più e meglio i lettori di quello che sta avvenendo.
Oppure, e se non altro, se si rimane nel campo delle opinioni, tratte dai comunicati stampa o dalle riflessioni di altri opinionisti, essere geniale e interessante tanto quanto quella di un famoso giornalista, sempre presente nel talk show. Perché il gioco interpretativo è un gioco di specchi che guarda se stessi. Non è cronaca e verifica delle fonti da cui scaturisce quella cronaca.
In pratica quello a cui stiamo assistendo è la fine del confine tra giornalismo alto e giornalismo basso, come era da intendersi prima. Il mainstream insomma non garantisce più la verità ai lettori. Garantisce forse quantità e abbondanza di informazione, grazie anche alle schiere di giornalisti al desk, spesso sottopagati. Che di contro garantisce abbondanza di lettori e di pubblicità. È insomma una questione di numeri. Ma più quantità non vuol dire più qualità. Lo dimostra il fatto che nel caso di Trump tutti hanno tratto le stesse conclusioni, perché tutti si sono abbeverati alla stessa fonte. Perché hanno copiato o hanno letto o seguito lo stesso flusso informativo. Senza fare le opportune verifiche.
Quanti giornalisti, osservatori, direttori e inviati speciali hanno davvero saputo dare notizie? E quanti invece si sono lasciati andare a predizioni, supposizioni e altro? Insomma la contrapposizione tra alto e basso giornalismo non esiste più. Esiste piuttosto la forza e la capacità di fare bene questo mestiere. Di cogliere i segnali e di avere la pazienza di andarli a sviscerare. La pazienza di effettuare le verifiche giuste. Di mettere vicino voci contrapposte, per dare un punto di vista completo. Il caso Trump dimostra che questo oggi lo possono fare tanto i grandi gruppi editoriali, quanto le piccole realtà del web o della carta stampata.