Roma, mercoledì 22 febbraio 2012 – “Combattere…contro la tirannide! Chi non conosce la verità è uno stolto, ma chi conoscendola la chiama menzogna è un delinquente!” dice Roberto D’Alessandro nei panni di Garibaldi in un dialogo surreale dei nostri stessi giorni. Cosa avvenne veramente nel corso dell’unità d’Italia? Tutta la pièce teatrale e le canzoni d’accompagnamento hanno un’unica matrice: “Io non festeggio 150 anni di bugie”. Quella di D’Alessandro è una voce scomoda, fuori del comune, che si leva in una sorta di missione verità per dar luce all’autentica origine del nostro Paese. L’unione fu fondata sulla discriminazione del Nord ai danni del Sud, quindi sul sopruso e non sulla condivisione. “I meridionali, briganti per definizione, furono imprigionati a migliaia e senza sentenza come gli islamici nella prigione statunitense di Guantanamo. Una sorta di Apartheid fra gente dello stesso sangue. Come in Kosovo fucilazioni di massa, fosse comuni, paesi rasi al suolo ed intere popolazioni in fuga dal proprio territorio d’appartenenza. Il più grande esodo d’Europa con tredici milioni di esuli in un secolo”. Ancor oggi nell’immaginario collettivo si afferma l’idea di uno sfaccendato e perdente Sud zavorra di un operoso e vincente Nord. Quello del regista è un atto di denuncia in merito a 150 anni di soprusi ai danni del Meridione. S’invoca una presa di coscienza finalizzata al riscatto sociale di chi ha vissuto sulla propria pelle l’iniqua oppressione.
Molte son state nel tempo le voci ad unirsi idealmente a quelle dell’autore del testo Pino Aprile e del regista nell’intento di por luce sulla verità dell’unità d’Italia. Tra di esse quelle di molti grandi artisti italiani come Eugenio Bennato, Domenico Modugno, Eddy Napoli, Enzo Arbore le cui canzoni fanno da colonna sonora all’intero spettacolo. A questa sorta di coro civile si unisce idealmente anche la voce della nota cantante Fiorella Mannoia che nel realizzare il suo ultimo album intitolato “Sud” ha tratto ispirazione dalla visione revisionistica narrata nel libro di Pino Aprile. È un tipo di teatro che lascia il segno, volto a mantenere viva la memoria di un popolo. Il tutto è accompagnato da nostalgici canti popolari carichi d’aura rivoluzionaria interpretati magistralmente dai Pandemonium. Questo gruppo musicale ci porge con garbo e dignità le storie degli emigranti in una sorta d’inno alla terra ed agli affetti perduti. Voci calde di spessore, di chi è artista da sempre, quelle di Mariano Perrella (voce e chitarra, riarrangiatore dei brani musicali) di Giordano Angelo (voce e flauto traverso), di Annarita Pirastu, Patrizia Tapparelli e Gianna Carlotta. Ognuno di loro impreziosisce la pièce con accorati brani da solista e coinvolgenti cori polifonici interpretati tutti rigorosamente dal vivo.
Appropriata la scelta delle canzoni da “Grande Sud” di Eugenio Bennato a “Amara terra mia” di Domenico Modugno, a “Malaunità” di Eddy Napoli, a “Simme do Sud” di Claudio Mattone ed Enzo Arbore a tante altre. Alla prima dello spettacolo il regista ha avuto anche l’onore di essere accompagnato in scena dal noto cantautore partenopeo Eugenio Bennato, che ha avuto modo d’interpretare in prima persona i brani da lui stesso composti. L’ottima scenografia a cura di Clara Surro è a base principalmente di giochi di luce, un sistema misto tra luce diffusa e luce orientata, una luminosità che cambiando colore e spandendosi nell’ambiente crea un’atmosfera particolare. Si scolpiscono in mente le parole del protagonista della pièce: “In nome dell’unità nazionale i fratelli del Nord praticarono stupri, saccheggi, torture ed abusi d’ogni tipo…Gli abitanti del Sud Italia…degl’incivili con connaturata corruzione, sporcizia, illegalità”. Certo che se paragonati in quanto a caratteri evolutivi ai figli di qualche leader politico della Lega Nord potrebbe scapparci da ridere…Sarebbe inoltre paradossale prendere lezioni di civiltà da politici del Nord rinviati a giudizio e condannati in via definitiva per danneggiamento ed incendio ai danni d’immigrati senza tetto. Gente che magari istiga i militanti del proprio partito nella realizzazione di scuole di tipo paramilitare per fronteggiare i propri antagonisti con la forza anziché in modo verbale. E che magari viene addirittura sospesa dal proprio partito per salvaguardarne l’immagine.
D’alessandro come Pino Aprile e molti altri muove accuse alle modalità d’attuazione del processo d’unificazione e contesta la rappresentazione storiografica dell’atroce vicenda data dai libri di scuola. “Oè sei fratello a me? E dimmi perché ferro e fuoco per me”, scorrono le immagini del video della canzone ‘Malaunità’ di Eddy Napoli, ma col sottofondo musicale dei Pandemonium, accompagnato dalle foto degli insorti uccisi da una nuova malattia chiamata “Brigantaggio” ed un’atmosfera angosciosa si spande nell’attonita sala del teatro. D’Alessandro chiede a Garibaldi: “Generale come fece con soli mille uomini a conquistare un regno?” e questi in linguaggio misto a base di francese, ligure e spagnolo risponde: “Muy claro, pagando!”. Ed aggiunge: “La vittoria dell’unificazione d’Italia è la storia di un’unica grande sconfitta”. È fondamentalmente uno spettacolo dal sapore amaro, ma l’assurdità della vicenda sconfina persino nell’ilarità. In esso si ride anche molto, specie quando il regista ironizza sulla favolosa somma razziata, che si aggirerebbe oggi sui 1500 miliardi di euro, o sulle teorie pseudo-scientifiche di Cesare Lombroso. Trascurando l’importanza dell’esposizione dell’individuo a fattori socio-ambientali, per il Lombroso si è criminali per nascita e sarebbero le caratteristiche fisiognomiche a decretare la tendenza a delinquere dell’uomo. Beffardo è che nel corso della sua stessa autopsia furono riscontrati i segni inconfondibili di una natura alienata e criminale, proprio sulla base di queste sue stesse sconfessate teorie.
Roberto D’Alessandro ci stupisce con un lungo monologo che si trasforma sapientemente in figurati dialoghi surreali tra il Nord ed il Sud, tra un uomo di oggi e l’Eroe dei due mondi. Con padronanza di voce e gestualità partecipa a questa riflessione sulle vere ragioni storiche e politico-culturali dell’arretratezza del Sud, e non solo da meridionale ma da italiano che ha dovuto constatare lo svilimento del proprio intero Paese. Con la mimica, le pause ad hoc, l’andatura dell’eloquio e lo stesso respiro passa con estrema agilità e con trasporto da una situazione all’altra, dal pianto al riso. Si pone al pubblico in modo riflessivo alla Giorgio Gaber portando avanti doverose tematiche di natura socioculturale, ma con stile. Lo stile di chi ha compreso che il vero cambiamento culturale passa attraverso verità e pacificazione.